"Il Monferrato è un tesoro ma gli astigiani non lo sanno"

 

ENZO ISAIA Sul sito astigiano de La Stampa si può vedere un assaggio di dieci anni di fotografie dedicate al territorio in cui si è trasferito, scattate in compagnia della cagnolina Rail

Quella di Enzo Isaia è una delle grandi firme della fotografia pubblicitaria. Ma si dovrebbe dire della fotografia «tout court». Basta osservare le immagini scelte per la fotogallery che tracciano una «mappa della grande bellezza del Monferrato» pubblicata sulla pagina web dell'edizione di Asti de La Stampa (www.lastampa.it/asti). Sono appena un assaggio delle portate complete disponibili sul sito www.monferratoedintorni.website, mentre una visione più completa sull'opera del fotografo è sul suo sito personale (www.enzoisaia.com). Nato a Pordenone nel 1941, Isaia ha vissuto e costruito la sua carriera a Torino. Dai qualche anno si è trasferito a Rocca d'Arazzo.
Lei sostiene che il Monferrato è magia. Come mai? 
«Non avevo mai fatto fotografie di paesaggio. Ho lavorato a Torino nei periodo d'oro, dagli anni '70 in poi, occupandomi soprattutto di motori. Ho fatto anche tante immagini di aerei in volo, sono stato spesso sugli F 104. E poi sono venuto a vivere a Rocca d'Arazzo e ho scoperto un mondo che a Torino non si sospetta neppure che esista. Una zona di una bellezza incredibile. Mi farò dei nemici, ma non è seconda alla Toscana, anzi lì non c'è la varietà di colture e colori che si trova in Monferrato. Dico spesso che l'astigiano è seduto su una pentola d'oro e non se ne rende conto». 
A Rocca d'Arazzo come ci è arrivato? 
«Per amore. Vent'anni fa mi sono innamorato di Luciana, ci siamo sposati e dal 2003 sono venuto a vivere qui. Ho mantenuto lo studio a Torino che ora è una sala da esposizione». 
Quando ha cominciato a fotografare il Monferrato? 
«Nel 2008, poi sono andato avanti per dieci anni, l'ho percorso in lungo e in largo nel tempo libero, contento di portare almeno uno scatto valido alla volta. Facendo i calcoli è come se ci avessi lavorato tutti i giorni per due anni. Sono sempre andato da solo, accompagnato dalla cagnetta Rail, che si chiamava così perché l'abbiamo trovata sotto un guard rail». 
Che cosa cerca con le sue fotografie? 
«Arrivando dalla pubblicità, cerco l'essenziale, l'immediatezza. Soprattutto cerco la luce. E di trasmettere l'emozione che provo di fronte a ciò che vedo». 
Qual è stata l'immagine più impegnativa? 
«Tante lo sono state, ma forse quella di un autotreno nero su sfondo nero. Ci sono voluti giorni, con cinque persone che lavoravano per me in un teatro di posa». 
Qual è il suo scatto che ama di più? 
«Quelli dedicati agli alpini. Direi, quella sulla copertina del libro "Noi alpini" realizzato con Giulio Bedeschi, giunto alla 5ª edizione». 
Come ha cominciato? 
«Ero al secondo anno di Architettura e mio padre mi portò un libro di Cartier-Bresson. Lo sfogliai, risfogliai, lo imparai a memoria. Poi mi dissi: da grande farò il fotografo. Ho lavorato per la Fiat, ma anche per Ferrari, Maserati, Pininfarina e molti altri». 
La sua formazione? 
«Il lavoro. Ho imparato guardando gli altri, studiando e rubando i loro segreti, sbagliando centomila volte e criticandomi anche di più. Sono stato il peggior avvocato di me stesso». 
Ha cominciato subito con la Nikon? 
«La mia prima macchina è stata una Leika M2. Poi ho usato Nikon pressoché per tutta la vita. Quasi tutte le mie foto sono fatte con filtro polarizzatore che aumenta contrasto e saturazione. Ho lavorato molto con macchine da studio e pellicola piana. E' stata una grande scuola. Invece oggi con il cellulare sono tutti fotografi...». 

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